Quantcast
Channel: La Tata Maschio » incontri
Viewing all articles
Browse latest Browse all 8

Un giorno un nome incominciò un viaggio

$
0
0

Qualche tempo fa Silvia Sai, autrice del blog Galline Volanti, ha commentato un mio post su Facebook e da lì è partito tutto.

DSC_9856

Negli ultimi tempi, sopraffatto dalle notizie di cronaca, mi sono chiesto più volte cosa sia giusto fare, e in che modo. La situazione internazionale appare sempre più complessa e su Facebook ho cercato in diversi casi di riflettere insieme a voi sul da farsi… Perché sono convinto che i muri si debbano erigere, non per dividere, ma solo per sostenere nuove case. Silvia è un’antropologa ed un’operatrice del progetto SPRAR di Reggio Emilia (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati). E se i blog servono a raccontare delle storie, beh a me piacerebbe dar voce anche a chi fatica a farsi sentire. (Qui, ad esempio, avevo mostrato i disegni di bambini migranti). Così ho pensato di chiedere a lei, in quanto persona informata dei fatti, una riflessione sulla tragedia dei migranti morti in mare, le cui vite spesso sono sotto i riflettori mediatici, e altrettanto spesso giacciono silenziose nell’oblio collettivo. Di seguito le sue parole, profonde quanto il mare che, attonito, è l’incredulo testimone di ciò che avviene.

Abbiamo deciso di far navigare anche questo post, pubblicandolo in contemporanea su entrambi i blog, Galline Volanti e La Tata Maschio. Buon viaggio.

 

Mi sembrava troppo difficile trovare la giusta espressione ai miei pensieri. I richiedenti asilo e i rifugiati sono le persone con cui lavoro ogni giorno e nessuna parola mi appariva sufficientemente rispettosa per raccontare le loro vite, ancor più se cariche di dolore e speranze infrante, ancor più se teatro di malumori e invidie, ancor più se queste sono vite bambine.

Poi è successo che ho conosciuto un libro per bambini, amaro, dolce, emozionante e commovente. Un albo illustrato prezioso perché con estrema delicatezza riesce a comunicare l’indicibile. Mentre leggevo “Un giorno un nome incominciò un viaggio”, un testo poetico e fluente che racconta la migrazione di una bambina attraverso la metafora del nome in viaggio, i pensieri hanno iniziato a prendere forma.

Poi ho assistito ad uno spettacolo teatrale, frutto di un laboratorio condotto dal Teatro dell’Orsa con i rifugiati e i richiedenti asilo con cui lavoro a Reggio Emilia, Questo è il mio nome. Infine, ho incontrato magnifiche fotografie che accolgono, con rispetto e dignità, frammenti di vite lontane e vicine. E così ho pensato che si poteva fare: raccontare, raccontare di nomi che viaggiano, e arrivano, forse, tra noi.

[I testi in grigio tra virgolette e le illustrazioni sono tratti dal libro “Un giorno un nome incominciò un viaggio”, di Antonio Boffa e Angela Nanetti, Gruppo Abele Edizioni, 2014. Le fotografie, che non sono parte del libro, sono di Nicolò Degl’Incerti Tocci].

image1

Un giorno un nome incominciò un viaggio.

Perché sull’altopiano tutto sapeva di latte e di canzoni, qui invece aveva fame e paura.

Coloro che sono vivi, sono tutti sopravvissuti. Hanno vissuto la fame e la paura, quelle grandi, grandi davvero. Ci sono tanti nomi giovani che viaggiano. Bambini e bambine. Nomi piccoli ma così grandi contenitori di speranze e futuro. Il nome bambino racchiude l’infinito e la libertà, tutto ciò che potrà essere e un giorno diventare. Qualsiasi forma abbia il nome, sia essa lunga o breve, maschio o femmina, dolce o dura, per un bambino esso è la parte di identità più importante. Spesso l’unica eredità della propria famiglia, della propria terra, della propria storia.

Un giorno un nome incominciò un viaggio. Era un nome di tante lettere e suonava dolce e morbido come l’erba dell’altopiano dopo le piogge. “Quella che danza coi narcisi”, così suonava il nome dato alla bambina. Ma l’erba dell’altopiano quell’anno si fece subito secca e gialla, perché il cielo era stato avaro di nuvole e di pioggia. E il nome incominciò il viaggio.

Sono viaggi che nessun bambino dovrebbe fare. Ma per provare ad aver salva la vita, le persone iniziano a camminare. Non tutte. Cammina chi può farlo, chi ci crede, chi vede dentro di sé una scintilla di speranza. E i bambini spesso danno speranza, insieme al coraggio e alla forza. E così, chi può, incomincia un viaggio, e cammina e cammina e cammina.

image2

Qui il nome incontrò altri nomi che gridavano in lingue sconosciute, e per la prima volta ebbe paura. Fu rinchiuso in una casa di fango e lì rimase ad aspettare. Intorno a lui suoni sconosciuti e solo una voce a consolarlo, ad avvolgerlo nello scialle morbido delle parole che gli erano note. Una voce, e sempre quella, ma non gli bastava. E continuò ad avere paura.

Si viaggia soli. In piccoli gruppi, a piedi, nascosti in macchina, su camion, stretti tra centinaia di persone. Forse c’è un volto amico, forse questo amico cade, e si perde. Il viaggio si intreccia con molte altre persone, ma quando si scommette sulla vita si è sempre, irrimediabilmente, soli. Così come di fronte all’indicibile.

In quella casa aspettò con altri nomi e vide la luna crescere e morire tante volte, e vide la crudeltà e il dolore senza riconoscerli.

image3

Nel viaggio convivono la paura del presente e la speranza del futuro. E poi c’è il passato. Così vicino e così distante, intriso di ricordi che fanno male, una mamma lontana, indifesa, un figlio appena nato e ancora mai conosciuto, un fratello che vorrebbe scappare, un’amata che attende, e ogni minuto che passa la sua vita scivola via se non sei tu, solo tu, a salvarla. Il passato è anche bello, nel ricordare si dipingono a colori cose che laggiù apparivano grige e nere. Ma i bambini che viaggiano, spesso, se sono stati fortunati e protetti, conservano ricordi di latte e miele.

Dopo tre mesi, ma il nome che veniva dall’altopiano non sapeva contare il tempo. Lassù, tra l’erba e il vento, il tempo scorreva e basta. Il tempo lassù non aveva parole, era dolce e profumato il tempo, lassù sull’altopiano. […] Lassù sull’altopiano, era libero di muoversi nell’aria, di saltellare di bocca in bocca o di riposare quieto.

Per chi su questa terra è fortunato, viaggiare equivale a gioia e scoperta. Ogni passo compiuto è un pezzo guadagnato che arricchisce. Al contrario, questi viaggi sono una progressiva perdita, di cose materiali, di dignità, di identità, di amore per se stessi, di fiducia verso l’altro. Il nome che viaggia perde se stesso nelle mani di altri.

Dopo tre mesi qualcuno scrive il nome su un foglio di carta. Lo fece senza amore e senza conoscenza, e alcune delle sue lettere belle rimasero imprigionate nell’inchiostro […] E di nuovo qualcuno lo imprigionò nella carta, qualcuno che non l’amava, e gli rubò ancora le lettere più belle.

image4

Il viaggio prosegue. Noi vediamo solo il mare che inghiotte vite, ma la grande distesa d’acqua è solo l’ultimo ostacolo per quelle esistenze che vanno quotidianamente a braccetto con la morte e con la paura. Un giorno, all’alba del naufragio del 3 ottobre 2013, un uomo mi disse: “Voi siete così scioccati per i morti in mare. Ma sai che cosa c’è, prima? Prima ci sono le cose terribili che abbiamo vissuto nel nostro paese, poi c’è il deserto, e poi c’è la Libia. Infine, il mare. Nessuno parla di tutto quello che c’è prima del mare”. Ma alla fine il mare per molti arriva davvero. E fa paura.

Non c’erano voci né canti nella barca, solo il ringhio del vecchio motore che invocava riposo […] Il nome ebbe fame e sete e di nuovo fame, e sempre più sete […] Finché una notte il mare ruggì e si gonfiò, il vento lottò col mare, il cielo divenne nero come il mare e il mare scuro come il cielo. Per un tempo che il nome non seppe contare, lungo forse come il primo respiro, breve forse come l’ultimo.

image5

Le morti in mare e sulle spiagge sono terribili, non più di altre, ma terribili, perché spesso anonime. Infinitamente tristi sono quelle croci senza nome sulla terra di Lampedusa. Neppure la morte ha restituito alle giovani vite l’identità negata, violata e infine perduta. Neppure la morte ha restituito il sussurro dei loro nomi.

Fu così che il nome arrivò sulla spiaggia in una mattina di sole tra i gabbiani. Senza più peso, ormai, e senza più paura. Senza fame né sete e senza barca: essa giaceva quieta in fondo al mare […] Un altro nome ora fa compagnia alla bambina nel cimitero che guarda il mare. Il suo era un nome bello e gentile, ma troppo lungo per una piccola croce: la bambina sconosciuta ora si chiama Anna.

image6

Chi sopravvive?

Un giorno ho conosciuto una donna. Bella e forte. Una mamma. La guerra l’aveva spinta oltre il mare, la paura l’aveva trattenuta a lungo, la speranza l’aveva convinta. Tre piccole vite erano a lei legate. 8 anni, 6 anni, e la più piccola nel suo ventre agitato ma sicuro. “Una ha attraversato il buio del mare con me e la vita nella pancia, l’altra l’ho lasciata sull’altra sponda”, mi raccontò. Partire, restare, entrambe le scelte possono condurre alla morte. Almeno una delle due piccole vite si salverà. La piccola vita nella pancia è sopravvissuta. E il suo nome è Baharia, che significa navigante.

Ma il nome nato tra l’erba e il vento non andò perduto. Tornarono le piogge e l’erba diventò verde e profumata di narcisi lassù sull’altopiano. Tutti ripresero a danzare, gli aironi e le gazzelle, i pastori e le madri. E anche le parole, poiché era arrivato il tempo di essere felici. E nacque una bambina del colore della terra dopo la pioggia la chiamarono “Quella che danza coi narcisi”.

Sono le voci degli altri, di coloro che amano, a mantenere vivo il nome, a dare forma e sostanza all’identità, e infine, ragione di vita. Ma quando quelle voci che vogliono bene al nome scompaiono, quando nessuno più lo pronuncia, restano solo corpi a vagare nella nebbia.

DSC_7221

Questo è il mio nome. Io ti vedo. Tu mi vedi?

Chiedono i giovani profughi nel teatro. Cantano, si raccontano, implorano, si stupiscono. Muovono i corpi nello spazio, condividono sguardi e memorie. E infine domandano Questo è il mio nome. Io ti vedo. Tu mi vedi?

2

1

3

Chiediamo i loro nomi. Pronunciamoli. Con amore e conoscenza, e se necessario, scriviamoli, con rispetto. Portano tracce di antenati. Portano futuri. Sono nomi che significano e hanno molto da raccontare. A volte, sono tutto ciò che resta.

Silvia

cavallerizza11

A me queste parole rimbombano dentro dalla prima volta che le ho lette.

Mi unisco ai ringraziamenti di Silvia alla casa editrice Gruppo Abele, per le proposte che portano avanti con passione, a Nicolò per le meravigliose foto, alcune inedite, al Teatro dell’Orsa per il cammino così profondamente umano cui danno continuamente vita. Consiglio di consultare il loro sito per le repliche dello spettacolo citato (13 e 14 dicembre 2015 a Milano!).

Ma il grazie più grande, ovviamente, va a te, Silvia! Di cuore.

LTM


Viewing all articles
Browse latest Browse all 8

Latest Images

Trending Articles